Prendi l’arte e mettila da parte, purché sia bianca: intervista a Matteo Malacaria
“Incredibile amici: ho fatto il pane! Ricordo ancora mia nonna, buon’anima. “Nonna, perché fai così?”. Perché così aveva visto e sentito fare era la risposta esemplificativa. Forget it! Un approccio del genere, in cui la ricetta è la verità assoluta, non solo è oggi anacronistico ma anche controproducente.”
Sembra cosa assai banale la panificazione, peccato di gola che si consuma quotidianamente tra le mura domestiche. Tuttavia la panificazione, quella consapevole, è invero un evento eccezionale, non solo nella dimensione casalinga ma anche tra i forni. Una rarità nel mare magnum di ricette tramandate di generazione in generazione.
Raccontaci qualcosa di te, Matteo…
“Classe 1989, Laurea Magistrale in Economia Aziendale e Management, mi occupo di consulenza di marketing strategico e operativo (storytelling, copywriting, social media marketing, web design, event management, fotografia). Sono autore del blog birramoriamoci.it e lavoro come brand Ambassador per The Drunken Duck – Spaccisti Birrai di Bolzano Vicentino. Contemporaneamente organizzo viaggi tematici incentrati su birra e cibo. Mi nutro di telefilm e fotografo compulsivamente il cibo. Per non sentirmi in colpa pratico palestra, dove ho conquistato la medaglia d’oro nel sollevamento pesi: forchetta e coltello.”
Arte bianca: plasmare la farina e trasformarla in scultura.
“L’arte bianca si definisce tale per un motivo: il prodotto finale si compone della stessa sostanza di cui sono fatti i lieviti. Che si tratti di birra, pane o pizza, ovunque ci sia lo zampino dei lieviti occorre un approccio scientifico. Basta pragmatismo, per carità!
La differenza tra un prodotto realizzato alla buona e uno buono per davvero non solo si sente ma si vede pure. Mi riferisco agli alveoli oggi tanto di moda e non soltanto a loro. Conservabilità e fragranza: sono loro a testimoniare quale pane è meritevole di assaggio, ben prima di addentarlo.
L’arte bianca, intesa come panificazione in senso ampio – pane, pizze e focacce ma anche pasticceria da forno e lievitati dolci – era uno sghiribizzo che mi solleticava da tempo. Un bisogno intimo e primordiale, per uno cresciuto nel Meridione, dove a tavola c’è sempre posto per il pane. Per fortuna c’è l’Accademia delle Professioni, che nel suo novero di corsi offre anche quello dedicato alla panificazione.”
È proprio vero che il pane ha il sapore della tradizione?
“Poche cose hanno il sapore della tradizione tanto quanto il pane, la cui ricetta viene tramandata da generazioni. Un approccio carismatico, per carità, ma limitato e limitante. Mi dispiace fare il guastafeste e rompere il romanticismo, me ne assumo la responsabilità. Però la tradizione si ferma laddove subentrano progresso, conoscenza, scienza.
Fare il pane è esattamente questo: applicare concetti moderni a un’attività antica che affonda le radici nella notte dei tempi. Nulla pregiudica il mestiere e la sua artigianalità, piuttosto lo valorizza. Giacché la maglia glutinica, prima ancora che di farina, acqua e movimento, si compone di tradizione e innovazione. Del resto, cos’è la tradizione di oggi se non l’innovazione di ieri?”
Perchè ti sei iscritto al Corso di Specializzazione in Panificazione?
“Ho sempre fatto il pane in casa e mi è capitato anche di fare la pizza in maniera professionale. Però mi sentivo un automa a ripetere gesti visti altrove, a mescolare gli ingredienti senza sapere cosa sarebbe accaduto nella loro intimità.
La prima lezione del corso – e il motivo per cui mi sento di consigliarlo – è quella sulla cosiddetta tecnologia alimentare. Conoscere i propri strumenti conferisce il potere assoluto: controllare il proprio lievito. Il lievito, invisibile nemico-amico del panificatore, è un prezioso alleato nella conquista del gusto. A patto di conoscerlo e trattarlo come si deve. Tutto il resto è fuffa.
Durante il corso ho trovato risposta alle mie domande e ad altre ancora grazie al suo approccio multidisciplinare. Merito del docente, Marco Zannin. Classe 1989 e una ben più longeva conoscenza della gastronomia a tuttotondo. Forte di una specializzazione teorico-pratica in Francia, ha affinato la tecnica nell’ambito dell’azienda agricola di famiglia. La gestione aziendale e l’attività di catering correlata gli hanno dato la possibilità di approfondire le dinamiche legate alla gestione delle materie prime e dei tempi, nonché il food-cost, croce e delizia degli imprenditori ristoratori.
Il corso inizia infatti con una domanda: quale pane volete fare? Domanda semplice ma spiazzante. Il pane è uno, facile. Tutt’altro: le possibilità di esecuzione sono infinite e la scelta, insieme alle proprie inclinazioni, dovrebbe collimare con i gusti della propria clientela. Il rischio è quello di trasformare sogni e aspirazioni di una giovane realtà imprenditoriale in un prematuro seppuku.
Dunque un corso a 360 gradi e anche qualcuno in più. Assieme alla metodologia necessaria il docente dispensa con generosità consigli sulla gastronomia in senso lato: dall’acquisto del latte alla scelta del burro – è anche docente nel corso di caseificazione – alla gestione del lievito madre nelle più disparate occasioni, fino alla scelta delle farciture per valorizzare lo scrigno che le contiene o la loro base. Priorità al gusto senza tralasciare l’estetica, ricorrendo a ingredienti gourmet e accostamenti inusuali e sorprendenti.
L’obiettivo di fondo è ridare dignità a un prodotto di consumo quotidiano. Rimarrà difficile convincere un cliente a pagare dieci euro per un chilo di pane. Tuttavia il corso termina con un monito e inizia con una missione: diffondere il verbo. Chi sceglie l’arte bianca ha il sacrosanto dovere di spiegare, pur alla ristretta cerchia dei suoi ospiti, cos’è un buon pane. Il soldo fa il mercato ma il gusto è sempre stato e sempre rimarrà il linguaggio di comunicazione universale. Il commensale apprezzerà. La pancia pure.”
MATTEO HA FREQUENTATO IL CORSO
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